Nei pressi di Candelo esisteva una fortezza perduta chiamata Ysingarda ?
Effettivamente in un diploma di concessione di privilegi nobiliari del 1155 si cita Ysingarda come una “rocha” rivendicata da Sebastiano Ferrero, ma di più non si conosce, salvo che si trovava ai limiti orientali dell’antica “Kan-deil”.
Difficile trovare tracce al giorno d’oggi su questo egimero stanziamento anche se alcuni nomi di cascine della Baraggia oltre il rio ‘bonda grande’ sembrano davvero evocare un passato di antropizzazione vantaggiosa.
Secondo una leggenda locale, la fortezza perduta sarebbe stata collegata con un passaggio segreto sottoterra alla rocca di Massazza.
In passato, la collina candelese doveva per forza essere ben difesa come dimostra ancor oggi l’esistenza del ricetto, uno dei meglio conservati dell’Italia del Nord.
Privo al suo interno di ogni edificio religioso, il Ricetto che lo storico Ferdinando Gabotto definì “Pompei medioevale del Biellese” é un quadrilatero irregolare di ben 13.000 metri quadrati d’estensione. Su cinque strade longitudinali e tre trasversali si affacciano più di duecento casette rurali, una addossata all’altra, costruite per vinificare nei ‘ciabòt’ del piano inferiore e conservare i foraggi ed altri prodotti agricoli al piano superiore. A difesa del bene comune, il magazzino popolare era circondato da un largo fossato, fortificato con un alto muraglione pietroso, protetto da torri d’avvistamento e difeso da un ponte levatoio che ne sbarrava l’ingresso.
Il prezioso deposito dei frutti del lavoro contadino era considerato un luogo inviolabile e precluso all’ingerenza di poteri esterni, quasi un simbolo d’extraterritorialità.
Questa roccaforte contadina serviva da rifugio a due comunità vicine ma distinte, quella di “Candelium” vera e propria e quella di “Arbengo” come veniva propriamente chiamata quella che oggi é soltanto la frazione San Lorenzo del paese.
Lo stemma comunale é rappresentato da quattro candele, poiché si presume che “Candèj” derivi dal latino “candela”, sinonimo del più usato “cereus”.
Tuttavia, proprio perché il nome di una delle due località richiama direttamente “j’arbo”, le piante non é troppo fantasioso pensare che anche l’altra abbia preso nome da una particolarità naturale del luogo.
Perciò “Candèj” si potrebbe spiegare ricorrendo all’unica lingua pre-indoeuropea ancora vivente, il basco dove “Kan deil” indica una regione collinare fortificata.
Potrebbe anche essere una contrazione di “Can dèir” che nella lingua pre-celtica e pre-latina degli antichi significa cerchio delle pietre.
Confermerebbe questa suggestione l’esistenza proprio sotto il ricetto di una località detta “Prato del sasso”, oggi trasformata in un’assolato parcheggio ma che in un lontano passato poteva forse essere caratterizzata da un masso di forma e dimensioni speciali o cui venivano attribuiti poteri salvifici particolari.
Gran parte della toponomastica della zona trae origine dal mondo rurale così come il vicino borgo di Benna direttamente indica una località con una “bënna”, un capanno di frasche.
Tutto fa pensare che in questa particolare zona biellese fiorissero e sapessero ben difendersi delle comunità rurali floride ed indipendenti.
Ma la regione fu al contempo teatro di ribellioni contadine e popolane che si accanirono anche contro il castello detto di “Cimaglia”, deformazione del toponimo “Zumaja”.
A proposito di questa località, ricordo con profonda commozione che nell’ormai lontano 1975 l’amico fraterno Federico Krutwig Sagredo, patriota basco allora in esilio in Belgio, portava la mia attenzione su una singolare affinità toponomatica scrivendomi d’avere “sottolineato la coincidenza fra i nomi delle città e villaggi fra Piemonte e Paese Basco... Zumaglia in Piemonte e Zumaya in Guipuzcoa, Paese Basco; Lessona e Lexona in Biscaglia; Orio canavesano e Orio in Guipuzcoa, Alzate ed Altzate in Navarra, Anzola d’Ossola e Anzuola in Guipuzcoa. In più Biella si trova nei Pirenei sotto forma di Viella. In basco Biella vuol dire: binario, cioé a dire una cosa composta di due unità. Dunque, nel caso di una città... una città che ha due quartieri. Io penso anche che i nomi di Occhieppo ed Oropa siano pre-indoeuropei ed anche dei nomi come Zubiena (in basco Zubi=ponte), Andrate=il colle (valico) della vergine... in basco Andra: Madonna ed athe: colle, passaggio. Io penso che nel termine Oropa si trovino due termini pre-indieuropei Oro o Uru per montagna (in basco Oro=montagna si trova nella forma di Amoro (cordeliera) e Pa che dovrebbe essere una variante di Pe= sotto, ai piedi di... Dunque Oropa sarebbe “il villaggio ai piedi della montagna”.
Tutte queste interpretazioni trovano chiaro riscontro nella realtà.
Biella, ad esempio, é divisa in città del Piano e Piazzo, Urupa é il centro spirituale sotto il Mars, montagna sacra per eccellenza; Andrate é il valico fra val d’Aosta e Biellese ed in più località costiere basche come Zumaya ed Orio hanno una perfetta assonanza con località piemontesi e uno dei corsi d’acqua più importanti della Guipuzcoa é la Deva che ha totale assonanza con l’“Eva” dell’Elf. Nella stessa regione basca, la città universitaria é Onate, fondata nel XVI secolo, punto di partenza per il santuario d’Arànzazu, come “Donà-ate” lo é di quello di Graja, altra capitale spirituale della Garalia, termine che per gli antichi popoli alpini indicava la regione delle montagne. Più precisamente, nei linguaggi pre-celtici col termine “Garra” si indicava un luogo pietroso.
Grazie alla generosa disponibilità del compianto maestro d’editoria Andrea Viglongo io stesso ho potuto dar conto di queste analogie in uno studio sulle “Sorprendenti tracce del basco nell'intera regione" ospitato nell’“Armanach Piemontèis 1983” dove ricordavo che “I paesi biellesi con nomi identici a quelli baschi sono una realtà. Urupa conserva nel nome il segno di un'antica dignità (Uru=Ur, capitale); le terre ove l'antica, gloriosa Vittimula dominava, ancora ne tramandano l'eredità (Vi-v-irun; Pi-v-irun, oggi italianizzati rozzamente in Viverone, al pari di Bab-ilun o della troiana Ilion, la basca Iruna)”.
Secondo l’autorevole parere di Sagredo, quelle fra toponimi baschi e piemontesi non erano coincidenze casuali ma tracce incancellabili d’una comune origine etnica fra i popoli pirenaici e quelli delle Alpi occidentali.
Non é dunque azzardato pensare che Zumaja fosse parte di una catena di fortificazioni create nei colli più elevati e difendibili dagli antichi abitatori del Biellese e che solo successivamente si fosse trasformata in castello o roccaforte.
In ogni caso, nel Medioevo “Zumaja” era certamente un centro strategico importante ma, come scrisse Giovanni Florio nel 1836, era stato edificato sul sangue e con la fatica di tanta povera gente perché “[l]a leggenda tramandata di padre in figlio, e narrata dagli abitanti dei paesi confinanti col castello della Cimaglia, afferma che tutti gli abitanti di quei paesi furono costretti con la violenza a partecipare alla costruzione di quella fortezza.
Giovani e vecchi, uomini e donne, disposti in una fila ordinata dalla cima del monte fino al fiume Sarvo che scorreva a due miglia di distanza passandosi, di mano in mano, i grossi sassi e i ciottoli del fiume colà raccolti, contribuirono, secondo la tradizione, all'edificazione di quel castello, costretti con la forza dai signori di esso”.
La fama sinistra della rocca di Zumaglia ha dato origine ad inquietanti racconti popolari che Pertusi e Ratti raccolsero a fine Ottocento a Ronco, dove “si raccontano da tutti, e forse si credono da alcuni, due brevi ma tristi leggende. Secondo chi ci crede, tratto tratto appare fra quei dirupi una capra fantasma, che potrebbe anche essere il diavolo, ma che pure, se non è il re dell’abisso in persona, apporta disgrazia a chi la incontra o solamente la vede. Quando vuol piovere, narra la seconda leggenda, vedesi, quale prodromo sicuro, una mesta lavandaia che stende panni intrisi di sangue sui ruderi del castello, affinchè l’acqua del cielo li deterga. Capra e lavandaia, la va da sè, hanno dimora nei cupi sotterranei del castello, i quali, benchè mai visitati da alcuno, pel volgo esistono ancora intatti e.... lunghissimi, colle relative indispensabili uscite secrete, mascherate da folte macchie o da massi giranti. Checcè si voglia dire però queste leggende sono al certo un doloroso ricordo popolare dei delitti e delle atrocità che furono commesse nel torvo castello di Zumaglia” che nel 1938 venne restaurato dal conte Vittorio Buratti della Malpenga, nel primo Dopoguerra deputato del “Partito Popolare” e poi ‘ravveduto’ di peso durante il Fascismo.
Il castello della Cimaglia venne saccheggiato parecchie volte dalle popolazioni dei paesi vicini di Zumaglia, Ronco, Bioglio, Andorno, Piatto, Ternengo ed i contadini l’assaltavano mossi dall'odio suscitato dalle frequenti razzie e ribalderie compiute a loro danno dalla soldatesca di presidio e dai maltrattamenti cui erano sottoposti dai signorotti dei vari paesi.
Lo scoppio della vendetta dei popoli oppressi fu terribile negli anni 1332 e 1337 e poco mancò che il vescovo di Vercelli non rimanesse sepolto sotto un muro da essi demolito, sfuggendo a tale pericolo colla fuga per una via sotterranea.
Durante la rivolta più violenta fu rinchiuso e tenuto in ostaggio insieme ai suoi congiunti nel castello di Biella.
Il castello di Zumaglia divenne famoso per la tragedia del capitano Giovanni Pecchio, rinchiuso per vent’anni nelle segrete nel 1537 da Filiberto Ferro Fieschi, padrone del castello.
La triste storia del sepolto vivo del ‘Brich’ è all'origine di una leggenda popolare.
Alla morte del suo persecutore Fieschi, un diavolo s'impossessò del suo corpo e dell'anima dannata, portandosela all'Inferno. Però nelle notti di luna piena la stessa anima senza pace si aggirerebbe fra i ruderi del castello, dopo aver assunto le sembianze di un caprone con le lunghissime corna.
Nella sua interessante “Storia di Motta Alciata” Carlo Ceria ricorda che una località chiamta “Singarda” era ancora indicata sulle mappe sabaude del Seicento.
Prima di lui, Delmo Lebole segnalava che “si riscontra ancora nel catasto del 1956 il nome di Sangarda e sdi strada della Sangarda in una regione posta parte in pianura e parte sulla baraggia nel comune di Candelo”.
Con una discutibile trasposizione ed una rielaborazione spregiudicata il mito della fortezza perduta di Ysingana si é trasferito in un personaggio del carnevale con la fantasiosa figura della “dama bianca delle pietre di Isingarda” accanto al tradizionale “Tulun”, la maschera che prende nome dal tutolo della pannocchia e rappresenta la più schietta anima contadina del borgo comunitario.
E’ un vero peccato che il carnevale candelese abbia perduto il suo originale carattere di festa contadina liberatoria che fino agli anni ‘60 culminava il martedì notte con l’accesione d’un imponente falò che, senza forse volerlo, dava vita ad uno scaramantico rito purificatorio paganeggiante.
Benché lo speleologo Luigi Bavagnoli dopo aver scoperto in luogo un antico raschiatoio in quarzite ritenga che Ysengarda fosse un antico villaggio druidico sono poco convinto che si trattasse davvero d’una fortezza militare.
Come suggerisce il nome di “Abazia” per una cascina della non lontana Mottalciata, poteva essere un monastero cristiano d’epoca medioevale che prese il nome dalla fondatrice situato in un promontorio isolato dove esistevano altre comunità monastiche.
Il toponimo di Mottalciata rimanda ad antichi stanziamenti perché nei linguaggi pre-celtici il termine “Mota” indica degli edifici isolati e posti su delle colline. In luoghi ideali per creare dei centri di preghiera e spiritualità.
Come documenta Jean Verdon nelle sue preziose e documentatissime “Recherches sur les monastères féminins dans la France du Sud aux IX° - XI° siècles” le numerosissime comunità di donne dedite alla preghiera ed alla meditazione sorte nel Medioevo prendevano nome dalla munifica benefattrice che le aveva create, protette e mantenute.
Anche per una singolare affinità fonetica con la località candelese perduta, va ricordato che il monastero di Saint Oren de Gimont nel Midi Pirenaico venne fondato dalla nobildonna Isangarda.
Di certo si sa che l’Ysingarda biellese, fosse un monastero, un cenobio spirituale o un centro di pericolosa eversione, venne distrutta nell’anno 1404 ad opera degli Avogadro.
Saremo grati a chi vorrà segnalarci realtà analoghe a quelle esaminate in questo articolo scrivendo a storiaribelle@gmail.
Per approfondire questi argomenti segnaliamo due libri pubblicati da Storia Ribelle casella postale 292 - 13900 Biella.