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CULTURA E SPETTACOLI | 04 giugno 2024, 08:10

Giugno 2024, una parola sarda al mese: “N” come “NOTTE”

Radici e semantica delle parole sarde rivisitate mediante i dizionari delle lingue mediterranee (lingue semitiche, lingue classiche). Laboratorio linguistico, di storia e di cultura sarda a Biella.

Incipit, “N”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009.

Incipit, “N”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009.

NOTTE è termine logudorese ed anche italiano; vedi notti in sassarese. Indica la ‘fase buia del tempo di ventiquattr'ore’.

Dopo tanti anni che scrivo in questa rivista, sento il bisogno di esortare i lettori a scrivermi e a dialogare, anziché leggere e passare oltre, lasciandomi l’impressione di scarso interesse. I lettori più accorti dovrebbero aver capito che la metodologia della quale mi avvalgo nell’esaminare le parole sarde e mediterranee è diversa rispetto a quella usata dai filologi romanzi. Al riguardo posso far l’esempio delle navi di superficie e dei batiscafi: le une collegano planarmente porto a porto, gli altri si calano negli abissi e sono capaci di scendere al fondo della Fossa delle Marianne. Due tipi di scafi, ambedue utili ma aventi scopi diversi.

Se tiene a mente questo esempio, il lettore s’accorgerà che i filologi romanzi quando scrivono di “etimologie” le intendono come un reseau, come una serie di nodi che si raccordano a rete tra loro. In tal guisa legano geneticamente e comparano tra loro una serie di vocaboli appartenenti a due o più lingue viventi; spesso “esondano” legando le lingue viventi a quelle scritte nel Medioevo. Fatta quest’operazione, scendono ad ancorare tale reseau alla lingua latina, la quale a sua volta viene abbinata ad una serie di lingue più o meno coeve, chiamate “indoeuropee”. Con tale procedura i filologi evidenziano due superfici, ossia due griglie di epoche diverse agganciate scalarmente tra loro, l’una attuale (od attuale-e-medievale) e l’altra sottostante che s’apparenta e si compara a sua volta con lingue note a quei tempi. Ma si osservi che tale comparazione diviene quasi un corridoio diagonale che raccorda Roma e l’India (lungo il quale è compreso soltanto il latino, il greco, l’antico persiano, il sanscrito).

Il mio procedimento è più o meno uguale, ma si differenzia perché al reseau antico non lego soltanto quelle quattro lingue ma pure la decina di lingue del Vicino Oriente. Oltre a questo chiarimento, il lettore deve osservare che i filologi romanzi, una volta evidenziata comparativamente la parentela tra quelle lingue, sono soliti trovare un generatore universale chiamato “lingua indoeuropea”, che però non riescono a spiegare scientificamente, e pertanto si rassegnano a connotare la propria supposizione con un immancabile asterisco (*), segno internazionale di ipotesi assolutamente priva di certezza.

Nel mio metodo l’asterisco è bandito, poiché nei 23 libri che sinora ho scritto per illustrare i processi linguistici- euro-mediterranei, ho ampiamente evidenziato che l’asterisco, l’ipotesi, la fantasia non possono affatto essere accettati entro una metodologia scientifica. La metodologia rimane scientifica soltanto se il vocabolo finale al quale lego il cordone ombelicale dei miei reseaux esiste realmente. Con assoluta certezza, io ho sempre trovato il corrispettivo dei miei vocaboli nei dizionari più arcaici dell’Umanità, che sono quello sumerico e quello egizio.

Una terza pregiudiziale, dalla quale rifuggo, è quella di credere che le lingue mediterranee attuali (italiano, sardo, spagnolo, francese) siano apparse nel Medioevo come meri derivati dal latino, in una palingenesi totale che non lascia trasparire niente delle lingue esistenti negli stessi territori prima di Roma. Il chè non è affatto vero. La smentita maggiore è data proprio dalla lingua sarda, la quale è sempre stata conservativa, data la millenaria insularità, e continua ad usare ininterrottamente da millenni delle parole indubbiamente simili a quelle latine ma più antiche, che acclarano un aggancio diretto col plancher originario dell’Homo sapiens, arcaico di decine di migliaia d’anni. Questo s’evidenzia abbondantemente grazie alla lingua egizia, che fu scritta da oltre 5000 anni fa.

Quindi il logudorese notte non deriva affatto dal latino noxnoctis, come invece pretendono i filologi romanzi. Per capirci bene sulla questione, propongo di seguito l’intera trafila comparativa di questa parola, la quale ci porta alla notte dei tempi, come scopriremo.

Ritroviamo questa parola nel gotico nahts ‘notte’, nell’anglosassone neaht, nell’antico frisone nacht, nell’antico sassone e nell’antico alto-tedesco naht. Scendendo sotto la griglia medievale e atterrando a 2-3000 anni fa, vediamo anche il sancrito nakt-, il greco nykt-, infine il latino noct-. Mastrelli (Grammatica Gotica 100) è un germanista, e come tutti i filologi non rinuncia a indicare l’origine prima di tali forme nell’indoeuropeo *nokt-s. Ovviamente tale procedimento è ascientifico. Queste che abbiamo esaminato sono parole pan-europee, inizialmente deltizie, mediterranee, e risalgono alla stessa nascita del linguaggio. Quindi è ovvio, è persino solare che il log. notte, il sassar.-gallur.-camp. nótti non hanno altro cordone ombelicale se non con la lingua egizia. Beninteso, anche il vocabolo il latino ha lo stesso cordone ombelicale. Pertanto la famigerata “lingua indoeuropea” va a farsi benedire, essendo un’invenzione per adolescenti facili da indottrinare, e la stessa pretesa di creare una gerarchia “imperiale”, dove tutto derivi dal latino, avvalorando per giunta che tale lingua – a sua volta – sia apparsa per miracolo partenogenetico, è una follia che delira dal metodo galileiano, abbandonando il solco della scienza.

In realtà, la base etimologica di log. notte è il sumerico nu 'creatore' (dell'Universo: riferito al Dio/Dea Luna) + te 'avvicinarsi, combaciare, essere accanto a'. Il sum. nut-te ‘accanto, ossia relativo al dio-Luna’ col tempo cedette alla più moderna semantica relativa alla notte, ma non certo quale esito del vocativo lat. nocte. Ricordo che l’attestazione più arcaica del sd. notte e dell'it. notte è - assieme al sum. Nut-te - l’egizio Nut, che nelle concezioni cosmogoniche primitive indicò il ‘Cielo’ (il quale è visibile solo al buio). Nut era un’entità femminile che sposò Geb ‘la Terra’ e generò Rā ‘il Sole’, ossia la Luce. Cfr. pure gr. Νύξ, νυκτός ‘Notte’, ‘notte’, lat. noxnoctis (cui corrispondono le varie voci che altri studiosi, non certo io, suppongono “indoeuropee”).

Il logudorese notte ha ovviamente un legame fono-semantico con nottesta camp., nontesta log. ‘stanotte’. Secondo Wagner la voce originerebbe dal lat. noctē istā ‘in questa notte’ (si badi la solita ossessione secondo cui tutto deriva dal latino!). Invero questa è un’antichissima locuzione mediterranea significante ‘dimora del buio’. La possiamo ricostruire da notte + egizio ast-t ‘sito, luogo, dimora’. In origine nottesta significò ‘dimora di Nut’ (ossia Cielo visto di notte).

C.S. Salvatore Dedola, glottologo-semitista

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