Copertina - 01 ottobre 2024, 00:00

Don Michele Berchi: "La presenza della Madonna d'Oropa è una sorgente unificante"

Don Berchi e il Santuario di Oropa, un legame che dura da anni. Come l’ha cambiata questo ruolo, se lo ha fatto e qual è il messaggio oggi che traspare dal culto della Madonna nera di Oropa?

Quando, ormai più di sedici anni fa, il Vescovo mi fece tornare dal Perù per affidarmi l’incarico di Rettore del Santuario di Oropa, sinceramente non sapevo cosa aspettarmi, ma la realtà, come sempre, è andata molto al di là di quello che potevo pensare. Ho dovuto affrontare sfide che non avevo mai nemmeno immaginato. Oltre all’aspetto pastorale, completamente diverso da quello di una parrocchia dove fino ad allora avevo operato, ho dovuto imparare ad interfacciarmi con il mondo della politica, dei media, e di molti altri ambiti per me totalmente nuovi (dal mondo degli esercenti a quello degli allevatori, il mondo della burocrazia statale…ecc). Per non parlare del fatto che ogni biellese, per non dire ogni pellegrino, ha la sua opinione su quanto si dovrebbe fare o non fare ad Oropa! Dopo uno shock iniziale durato qualche mese (anno?), ho potuto verificare concretamente che la fede, senza risparmiarmi di cadere in errori o di vedere emergere il peggio di me in certe circostanze, mi dava la possibilità di essere libero, non dai miei limiti e dalle circostanze a volte veramente molto dure, ma libero in esse. Ho potuto verificare che grazie alla fede potevo essere me stesso qualunque fosse la circostanza.

Penso che questo abbia anche a che fare anche con ciò che molti cercano qui ad Oropa: certo è difficile sintetizzare troppo quello che lei chiama “messaggio”, ma io credo che qui si cerchi e si trovi un legame misterioso con la Madonna in cui sentirsi voluti bene, valorizzati, dove si torna a ricevere la forza per affrontare tutte le sfide della vita.

Come ha abbracciato il percorso di fede che l’ha portata a vestire l’abito talare?

Innanzitutto incontrando una realtà di Chiesa in cui la fede era vissuta come pertinente a tutta la vita facendomi scoprire che Cristo era una persona presente. Ero uno studente di ragioneria, quando questo incontro ha fatto come spalancare i miei interessi, il mio entusiasmo e la mia voglia di vivere, perfino di studiare, e questa esplosione di vita fu per me la verifica. Quello che Cristo chiama il “centuplo quaggiù”. Poi il Signore sa mettere quel seme della vocazione che comincia a girarti per la testa, poi nel cuore e a spaventarti perché da idea, pian piano, diviene una possibilità concreta. Ho lottato per un po’ di tempo contro questa possibilità che si ripresentava al mio cuore. Ma questa è una lotta paradossale perché, se questa lotta c’è, vuol dire che esiste il Contendente. Più lotti per resistere e più affermi che esiste qualcosa di oggettivo che ti si sta proponendo. Alla fine persi, …vincendo. Come dico sempre, vincendo il primo premio della lotteria. È stato un cammino affascinante anche quello di scoprire di essere chiamato ad amare in un modo incomprensibile per il mondo; il celibato è solo un aspetto di questo, a me piace più usare il termine “verginità”, un amore verginale, parola che, anche se sembra richiamare solo l’aspetto fisico, dice meglio quello che ho cominciato a scoprire quando avevo diciotto anni e che continuo a vivere oggi: l’essere chiamato ad amare nella stessa forma con cui ama Cristo stesso. Fu ed è la scoperta di un amore, prima che di una rinuncia. Ma su questo ci sarebbe da dire molto di più.

Don Berchi, parliamo della sua esperienza di sacerdote in un rione popoloso come il Villaggio Lamarmora, cosa le ha insegnato?

I miei primi dieci anni da prete! È stata una gavetta formidabile, soprattutto a fianco di un maestro come don Gibello. Ho imparato tante cose: che la povertà prima di essere economica è culturale; ho imparato che la tentazione di risolvere i problemi senza affrontarli alla loro radice nel cuore di ogni uomo è solo ideologia; ho imparato (ma forse sarebbe meglio dire che avrei voluto imparare, proprio da don Gibello) quella capacità di servire senza “se” e senza “ma” i più poveri. Ho sperimentato che a volte ci sono delle persone che portano delle croci così pesanti e per cui non puoi fare nulla, se non stare con loro per imparare. Siccome poi ero viceparroco e il mio compito principale era stare con i ragazzi, forse è lì che maggiormente ho imparato ad amare la loro libertà, cioè più che “facessero giusto”, a desiderare che facessero esperienza personale di ciò che era buono; perché come educatore è più bello correre il rischio del padre che non sbarra la strada al figliol prodigo, ma continua ad attenderlo confidando che troverà la strada per tornare, piuttosto che tenersi in casa un “bravo ragazzo” che si comporta bene, ma che è divorato dal rancore di perdersi il meglio (come il fratello del figliol prodigo).

Qualche episodio curioso e/o felice da ricordare?

Evidentemente ne avrei tantissimi in dieci anni al Villaggio Lamarmora! Il più curioso forse è quello che tutti ricordano di quando, aiutando ad issare la croce di ferro che pesava un quintale e che ancora oggi campeggia all’interno della chiesa, crollò l’intera incastellatura e uno dei tubi innocenti mi colpì sfondandomi la scatola cranica. Tutti gli operai, il capocantiere, l’architetto rimasero paralizzati dal terrore e non fecero nulla per aiutarmi, furono i ragazzi che mi soccorsero e uno di loro, inforcando la bicicletta, corse fino alla vicina caserma dei vigili del fuoco per chiamare l’ambulanza e così fui portato in ospedale e trasportato in elicottero a Novara in coma farmacologico. Quando mi risvegliarono le infermiere mi chiedevano cosa mi fosse successo e quando raccontavo loro che mi era caduta addosso una croce, non riuscivano a trattenersi dal ridere. Insomma che un prete si prenda una croce in testa… !

Invece di episodi felici ne ricordo tantissimi, soprattutto legati ai campeggi estivi (così chiamavamo le settimane che trascorrevamo in Valchiusella nella casa della parrocchia ad Inverso). Le serate con i ragazzi animatori, dopo aver messo i più piccoli a dormire e aver pregato insieme, le scorpacciate di risate e di piadine che ci facevamo. Oppure le bellissime gite in montagna sempre con i ragazzi, quando a metà salita ci fermavamo per la preghiera e si restava in silenzio a contemplare quello che Dio stava creando in quell’istante! E poi sa qual è uno dei momenti più belli di una parrocchia, o almeno per il parroco (e il viceparroco)? La prima Comunione dei bambini. Il loro sincero entusiasmo nel primo incontro con Cristo. Ho questo ricordo indelebile: don Gibello all’inizio della Messa faceva salire in piedi sul predellino del banco i bambini e faceva mettere in ginocchio i loro genitori al loro fianco e poi diceva: “adesso noi adulti che sgridiamo sempre i bambini, ci mettiamo in ginocchio e chiediamo perdono per il mondo che consegniamo loro.”

Il ricordo della sua missione in Perù?

Beh qui ci vorrebbe un libro! Sono in difficoltà a scegliere cosa raccontare. Sono andato in Perù assieme ad un altro sacerdote di Firenze, rispondendo alla richiesta di un vescovo italiano a Lima. La sua idea era quella di creare un’università cattolica in mezzo alle baracche per formare maestri ed economisti cristiani peruviani. Il caro Monsignor Giustetti mi lasciò andare, anzi mi inviò come fidei donum della Diocesi di Biella per contribuire alla pastorale universitaria di questa nuova università. Il vescovo di Lima, Monsignor Lino Panizza, non solo ci affidò la pastorale universitaria, ma anche una “parrocchietta” (così la chiamò) della diocesi. Una parrocchia di 60.000 abitanti! Per completare il quadro bisogna aggiungere che la diocesi contava circa due milioni e mezzo di abitanti (circa un quinto di tutta la città di Lima) per il 70% sotto i 27 anni. Insomma una realtà un po’ diversa da quella biellese….

Ho vissuto cose che non dimenticherò mai e che mi hanno segnato per sempre e di cui sono grato al Signore. Dalla catechesi da organizzare in parrocchia per numeri per noi inimmaginabili (il primo anno i cresimandi erano 450!), alla dedizione dei ragazzi animatori che trascorrevano il loro unico giorno di riposo dal lavoro, la domenica, per servire la parrocchia, alla commozione di vedere i miei alunni universitari crescere come uomini e donne in mezzo a difficoltà economiche, famigliari, sociali per noi impensabili.

L’ultimo anno di mia permanenza in Perù sperimentammo un percorso di catechismo inedito, intervallando una domenica di lezione con un’altra in cui si viaggiava due ore in pullman per andare a trascorrere il pomeriggio con i bambini di Ica (località a sud di Lima) dove nel 2007 un terremoto aveva raso al suolo ogni abitazione. Fu un catechismo eccezionale, il giorno di Natale tutta la comunità parrocchiale si spostò a Ica per festeggiare insieme ai terremotati.

Insomma non mi fermerei più nel raccontare quegli otto anni in Perù, mi permetto però solo di aggiungere che sono riconoscente al Signore di avermi fatto la grazia in quegli anni di diventare amico e poi di lavorare quotidianamente in università con Andrea Aziani, un consacrato di Comunione e Liberazione che il Signore ha chiamato a Sé nel 2008, proprio pochi mesi dopo che io lasciai il Perù, e per cui la Chiesa ha riconosciuto le Virtù eroiche e ha aperto la Causa di beatificazione.

Recentemente lei ha rilasciato un’intervista in cui ha detto "non si può essere cristiani senza essere affezionati alla Madonna", potremmo dire un tutt’uno con il ruolo che riveste. Ci spiega il senso di questa affermazione?

Naturalmente la convinzione non è solo mia, io ho voluto semplicemente parafrasare un verso che mi è tanto caro della Divina Commedia, nella preghiera di San Bernardo alla Vergine: Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia ed a te non ricorre, sua disianza vuol volar sanz’ali. Io qui ad Oropa lo vedo tutti i giorni. Dio ha scelto una donna attraverso la cui libertà e attraverso la cui carne si è fatto conoscere, vedere e toccare (come dice san Giovanni). È stato Dio a scegliere che lo conoscessimo attraverso la Madonna e, lo ripeto, io sono spettatore quotidiano ad Oropa di come il popolo di Dio, dalla persona più umile a quella più importante, peccatori o santi, vecchi o bambini, tutti quanti abbiano un legame intimo, unico e personale con Maria la madre di Dio e come si rivolgano a Lei perché faciliti e sostenga la loro fede in Dio suo figlio.

Nel 2025 ci sarà il centenario della morte del beato Pier Giorgio Frassati, può essere ancora un valido esempio per i giovani di impegno e di passione per il prossimo?

Devo dire che io mi sento un po’”di parte” da questo punto di vista, perché la mia vocazione è sbocciata anche grazie a Pier Giorgio. In quel periodo di lotta che le raccontavo, molto spesso salivo a Pollone in motorino e andavo alla sua tomba (prima che ce lo portassero via!) a chiedergli che mi illuminasse e mi desse la forza di dire il mio sì. Quindi sono assolutamente convinto che Pier Giorgio farà la sua parte anche dal paradiso per il cammino e la vocazione dei giovani. Però, se mi permette una precisazione, prima ancora che essere un esempio di impegno e di passione per il prossimo, io sono convinto che, come ci ha ricordato il nostro Vescovo Mons. Farinella nella sua lettera pastorale, ciò per cui è prezioso Frassati sono quell’impegno e quella passione verso la voglia di una vita viva. Quel “vivere e non vivacchiare” tanto famoso e di cui mi sembra abbiano bisogno i giovani oggi. Un entusiasmo per godersi la vita autenticamente, senza fermarsi all’apparenza (o al virtuale). Io credo che la modernità di Pier Giorgio stia nel testimoniare una fede che esalta la vita e in cui l’impegno per il prossimo, per i poveri, per la politica, per lo studio, per il lavoro, per l’amicizia, per la montagna, per la famiglia sono conseguenze.

A proposito di esempi e di modelli cosa ha imparato dalla lezione di don Giussani?

Per me don Giussani è un padre nella fede. Il modo con cui il Signore si è fatto e si fa per me vicino e avvincente nella Chiesa è il carisma di don Giussani. Se devo sintetizzare quello che mi ha affascinato di questo carisma, direi che è un’esperienza comunitaria attraverso cui Cristo si rende presente ora. Se prima pensavo che Gesù fosse venuto per trentatre anni, per poi lasciarci il suo insegnamento attraverso la sua parola e l’aiuto dello Spirito, la grande scoperta che mi ha fatto fare don Giussani è che Cristo non se n’è mai andato, che continua ad essere fisicamente presente nel mondo e nella storia attraverso la Chiesa e per me attraverso quell’ultimo capillare della Chiesa che è la comunità attraverso cui Lui mi è venuto incontro. Insomma da don Giussani ho imparato a dire “tu” a Cristo come lo si dice a una persona presente, perché lo è.

Come ha trasformato il Santuario sotto la sua guida e quali saranno le sfide da affrontare per i prossimi anni?

Dire che io ho trasformato il Santuario è sicuramente un’espressione esagerata. Direi piuttosto che ho contribuito a formare una squadra di persone che cerca di dare al Santuario un certo indirizzo. Non lo dico per falsa modestia, ma perché la grande e complessa “macchina” che è il Santuario vive per il lavoro e la dedizione di più persone a volte anche sconosciute ai più. Se devo descrivere le coordinate che abbiamo cercato di costruire in questi anni, direi che innanzitutto è stato cercare di far sì che Oropa sia accogliente da tutti i punti di vista. Per questo naturalmente ci sono voluti e ci vogliono i soldi, ma non solo e non prima di tutto. Occorre una mentalità che sia fermamente convinta che coloro che vengono qui possano trovare lo spazio per vivere ciò che stanno cercando: un rapporto profondo e personale con la Madonna e con il Signore, un po’ di pace e di silenzio, un luogo dove aprirsi al Mistero, un posto dove passare una bella giornata mangiando bene, dove passeggiare, dove godersi le montagne, la natura, l’arte, oppure dove scoprire la storia delle proprie radici biellesi. Oropa ha questa caratteristica, secondo me unica, di poter abbracciare tutti questi aspetti (e molti altri) avendo innegabilmente come “sorgente unificante” la presenza della Madonna che, senza imporsi, si propone a tutti. Ecco lo sforzo di questi anni è stato e continua ad essere in questa direzione di non assolutizzare un aspetto a discapito degli altri, ma di rispettare e far crescere questa sua originalità. Aggiungo anche che questo ha significato a volte doverla difendere da chi invece Oropa la vorrebbe “usare” per scopi personali o di parte e le garantisco che sono più di quanto io pensassi.

Biella negli ultimi anni si sta trasformando da polo tessile in polo di servizi e Oropa acquisisce anche una forte valenza turistica non solo religiosa ma sportiva, diventerà sempre più un polo attrattivo?

Il fatto che Oropa possa contare più di 400 posti letto, una decina di ristoranti, sale convegni, oltre ad alcuni ambienti che possono essere usati in autogestione, evidentemente non può che costituire un polo turistico attrattivo. Dove per “turistico” intendo quello che ho cercato di spiegare prima, non una sorta di villaggio turistico, ma nemmeno un eremo mistico. Mi unisco a molti, anche più esperti ed autorevoli di me, nel dire che se il biellese vuole diventare un polo attrattivo, occorrono idee di ampio respiro che guardino al Biellese come un unico comprensorio dove ogni realtà sia rispettosamente valorizzata e ognuna si senta parte di un progetto unitario. Forse sembreranno parole banali, ma ahimè nel Biellese non lo sono di certo. Evidentemente la politica ha un grandissimo ruolo in questo, come anche le fondazioni e i capitali privati. Quanti progetti sono stati fatti su Oropa senza coinvolgere Oropa e quante volte i progetti avevano come fine interessi particolari e non il bene di tutto il comprensorio...

Un messaggio da trasmettere ai nostri lettori

Sinceramente questo mi mette in forte imbarazzo. Chi sono io per lanciare messaggi? Mi sentirei più a mio agio nel dirle cosa mi sta più a cuore in questo momento. Quando tornai dal Perù, nel 2008 smisi di insegnare (cosa che avevo fatto ininterrottamente, prima quando ero viceparroco a Biella e poi a Lima) e questo mi mancava molto. L’anno scorso ho ricominciato in un Liceo a Biella perché desideravo confrontarmi con il mondo attuale in un ambiente così sfidante come quello dei giovani di oggi. Sono rimasto molto impressionato dal fatto che tutto lo sforzo educativo, a volte veramente encomiabile, e che spesso costa molte fatiche e risorse, ha come fine quello di insegnare loro cose giuste e buone, per farne dei buoni alunni prima e dei buoni cittadini poi. E lei mi dirà: cosa c’è di male? Anzi! Il fatto è che non impareranno mai a giudicare, vale a dire a scoprire che hanno dentro di loro la capacità di riconoscere il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il vero dal falso. È questa capacità che la tradizione cristiana chiama “cuore” che bisognerebbe far loro scoprire come il valore più grande e infinito che hanno. Senza essere educati a scoprire il loro cuore, rimangono facile preda della mentalità e del potere di turno che giungono loro attraverso i media e soprattutto i social. Io credo che in questo senso il cristianesimo quindi noi cristiani abbiamo davanti una responsabilità e un’occasione grandissima nell’annunciare un Dio che, facendosi uomo è venuto a dirci: “Cosa importa se guadagni il mondo intero, se poi perdi te stesso?” Che tradotto significa, ma non vedi che tu vali più del mondo intero? Non vedi che ti ho messo dentro un cuore che non si accontenta del mondo intero, capace di infinito?

Giuseppe Rasolo

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