Copertina - 01 marzo 2025, 00:00

Francesca Tallia biellese, ingegnere biomedico, ricercatrice a Londra nell'equipe che ha brevettato l'osso bionico

“Per arrivare a qualche successo ci sono tanti tentativi e fallimenti, servono fondi e tempo, ma ogni esperimento ci insegna sempre qualcosa di nuovo”

Francesca Tallia biellese, ingegnere biomedico, ricercatrice a Londra nell'equipe che ha brevettato l'osso bionico

Francesca Tallia, 40 anni, biellese doc, le sue radici sono nel tessile, ma lei ha scelto una via diversa e oggi vive a Londra e fa la ricercatrice in ambito biomedico. Ci racconta qualcosa di lei?

Provengo da una famiglia con alle spalle una lunga tradizione nel tessile e nel cashmere. Sono la seconda di tre sorelle e tutte, con il totale supporto dei nostri genitori, abbiamo abbandonato le radici per seguire la nostre passioni... così adesso loro si trovano con un chirurgo vascolare, un ingegnere biomedico e un avvocato, alla fine non è andata male! Io ho studiato ingegneria biomedica al Politecnico di Torino, dove già nel corso della tesi di laurea specialistica mi sono dedicata ai biomateriali e ai vetri bioattivi. Dopo ho lavorato per un’azienda spin-off del Politecnico di Torino in cui ho lavorato su cementi vertebrali, poi alla fine del 2012 mi sono trasferita a Londra per iniziare un dottorato di ricerca presso l’Imperial College finanziato dall’Unione Europea con una borsa di studio Marie Curie...e da lì non mi sono più mossa e continuo a lavorarci come Research Fellow.

La mia ricerca ruota attorno a questo nuovo materiale che abbiamo brevettato, il “Bouncy Bioglass” letteralmente “vetro rimbalzino” – un materiale ibrido che contiene biovetro, polimero, si può stampare in 3D e ha dimostrato la capacità di stimolare la rigenerazione di cartilagine articolare e osso. Nel corso di questi anni londinesi oltre ad essere cresciuta professionalmente ho però anche creato la mia piccola famiglia: mi sono sposata (con un ragazzo anche lui di origine biellese) e adesso abbiamo 2 splendidi maschietti che ci tengono allegri. Sono una grande appassionata di calcio e anche da lontano non smetto di seguire la mia amata Juventus, per cui cerco di trasmettere la passione ai miei figli prima che si innamorino di qualche squadra inglese. Mi piacerebbe avere più tempo da dedicare alla mia altra passione, che è la fotografia, anche se al momento con due bambini piccoli il massimo che riesco a fare sono foto sfocate dei piccolini che corrono da mandare ai nonni e alle zie. 

Cos'è l’ingegneria biomedica e dove può arrivare?

Spesso la gente pensa che noi ricercatori lavoriamo solo a cose fantascientifiche, ma in realtà noi ingegneri biomedici abbiamo a che fare con tantissimi aspetti della vita di tutti i giorni - siamo un po’ dei tutto fare nel campo dell’ingegneria collegata alla medicina, con lo scopo di migliorare i trattamenti, i mezzi diagnostici e in generale la salute e la qualità della vita delle persone. E il progresso nel campo dell’ingegneria biomedica è cresciuto esponenzialmente negli ultimi decenni al pari di tantissime altre tecnologie (e anche grazie allo sviluppo in parallelo di altri settori). Io mi sono laureata nel 2009 ed ero tipo nel secondo o terzo anno che completava il ciclo di ingegneria biomedica, quindi era ancora una specialità nuovissima.

Ora dopo 16 anni è una parte imprescindibile della medicina. Nello specifico io mi occupo di biomateriali, che per definizione sono i materiali naturali o sintetici, che vengono in contatto con sistemi biologici. Si va per esempio dalle protesi ortopediche alle provette di laboratorio, dalle valvole cardiache alle viti per impianti dentali, dagli stent ai filler di chirurgia plastica. Io nel mio piccolo ho deciso di andare a cercare un ambito abbastanza di nicchia e complesso che è quello di materiali bioattivi, ossia materiali che una volta introdotti nel corpo umano non svolgono solo la loro funzione “meccanica” in modo inerte, ma interagiscono con il tessuto circostante per stimolarne la rigenerazione mentre il materiale in sé si biodegrada.

L’obiettivo finale è avere quindi materiali che rimangono nel corpo solo temporaneamente, ma alla fine il tessuto danneggiato sarà completamente rigenerato dal corpo stesso. E nel futuro vedo lo sviluppo di materiali “intelligenti” che non solo stimolano il corpo ma rispondono essi stessi agli stimoli del corpo in cui sono inseriti. Tra questi vedo grande potenziale nei materiali autoriparanti, nei nanomateriali come le molecole per il rilascio controllato di farmaco che potrebbero rivoluzionare il campo della cura dei tumori, e poi nei materiali antivirali e antibatterici per prevenire la diffusione di nuove malattie. 

Lei è nell'equipe che ha brevettato l’osso bionico che si può stampare in 3D e che può rigenerare i tessuti danneggiati dall’età o dai traumi. Come siete arrivati a questa scoperta? Che cosa ha provato? 

Sì, sono molto orgogliosa di essere stata a capo del gruppo di inventori di questo nuovo materiale. Noi non lo chiamiamo “osso bionico”, forse nell’eccitazione del momento si era creata un po’ di confusione nella traduzione da inglese a italiano, ma noi lo chiamiamo “Bouncy Bioglass” perché quello che noi abbiamo inventato è una nuova forma di biovetro (“Bioglass”) che rimbalza (“Bouncy”) come una plastica. La ricerca del gruppo del mio supervisore, Prof. Julian Jones (Dipartimento di Materiali, Imperial College London) è sempre stata incentrata sul biovetro, che è un materiale inventato negli anni Settanta che ha la capacita’ di stimolare la rigenerazione dell’osso.

Nel corso del mio dottorato stavo lavorando sulla sua chimica per cercare di aggiungere a livello molecolare una componente polimerica per renderlo meno fragile e rigido così da evitare che si disintegri come fa normalmente un vetro sotto carico. Per fare questo ho lavorato con la Prof. Laura Cipolla e Prof. Laura Russo dell’Università Bicocca di Milano. Nel farlo ho fondamentalmente prodotto una nuova reazione chimica tra i diversi reagenti che ha dato vita ad un nuovo materiale, trasparente e bioattivo come il vetro, ma “rimbalzino”, resistente agli urti, come la plastica. La reazione chimica e’ avvenuta non dico per caso ma quasi, ma noi abbiamo avuto il merito di aver osservato gli esperimenti, analizzato i dati ed esserci resi conto delle “anomalie” ed investito tantissimo tempo e studi per capire cosa avessimo creato e a cosa potesse servire. Perchè poi questo e’ l’aspetto principale, un’ invenzione serve a poco se non ha una applicazione e negli studi successivi abbiamo dimostrato che si può stampare in 3D per produrre delle microscopiche “impalcature” che inserite nell’osso o nella cartilagine ne stimolano la rigenerazione.

A questo proposito e’ fondamentale la sua versatilità, perchè si possono modulare le percentuali di vetro e polimero o aggiungere ioni (come ad esempio calcio) per ottenere strutture più rigide come l’osso o più elastiche come la cartilagine. Noi ricercatori cerchiamo soluzioni a problemi reali, spesso molto complessi. Purtroppo per arrivare a qualcosa di successo ci sono tanti tentativi e tanti fallimenti, questo significa che servono fondi e tempo, ma ogni esperimento ci insegna sempre qualcosa di nuovo che un passo per volta ci porta a trovare le risposte. Nel caso del Bouncy Bioglass, si è trattato di un percorso durato anni ma quando abbiamo messo insieme i pezzi del puzzle abbiamo provato grande orgoglio e soddisfazione.

Il suo lavoro è incentrato sull'uso di materiali innovativi e l'integrazione nel corpo umano. Altre conquiste importanti per la salute e la società delle quali ci vuole parlare o progetti importanti ai quali sta lavorando?

A partire dalla mia tesi di laurea specialistica mi sono dedicata all’ambito dei biovetri per applicazioni nell’apparato muscolo-scheletrico, a cui avevo iniziato ad appassionarmi durante il corso di biomateriali. Da lì il mio lavoro si è poi focalizzato sia sulla modificazione chimica per impartirne diverse proprietà, sia sulla sua lavorazione tramite stampa 3D. Negli ultimi anni ho continuato a lavorare sempre sul Bouncy Bioglass per trasformarlo in un vero e proprio dispositivo medico per il trattamento dei difetti di osso e cartilagine nel ginocchio, quindi ho lavorato a contatto con chirurghi ortopedici per definire il design, la tecnica di impianto, ecc. E lo step finale è stato avere tutti i dati in mano per dare il brevetto in licenza ad una azienda di Oxford che cercherà di trasformarlo in un vero e proprio prodotto commerciale. In parallelo, ho iniziato ad esplorare l’utilizzo del Bouncy Bioglass per altre applicazioni, come ad esempio il menisco e i dischi intervertebrali, diversi metodi di stampa 3D che usano la luce UV, uso di polimeri di origine naturale con un occhio alla sostenibilità, valutazione delle sue proprietà antibatteriche.

Francesca da piccola come era? Le manca Biella e se sì, che cosa in particolare? 

Ero terribilmente timida, secchiona a scuola, appassionata di Nintendo e innamorata del pallone e della Juve da quando ha iniziato a camminare. Ero il piccolo ingegnere di casa, ero affascinata dalle tecnologie e dagli ingranaggi di tutto quello che mi circondava, mi divertivo a montare e smontare, ed ero sempre quella che chiamavano quando c’era qualcosa da aggiustare. Biella per me è casa, l’ho sempre amata, con il mio lavoro era facile immaginare un futuro non a Biella, ma mai avrei pensato di finire a Londra. Ovviamente mi manca. Quando vedo le montagne tornando a casa dalla Malpensa, penso “Ah finalmente a casa”. A parte le classiche cose che mancano ad un italiano all’estero, quali cibo, sole, calore della gente, mi manca la mia famiglia e il non averla come parte della nostra routine quotidiana. E poi dopo tutti questi anni a Londra, apprezzo tantissimo tornare in una realtà più piccola in cui non ci vuole minimo 1 ora per spostarsi da un posto all’altro ma tutto è a portata di mano e se vai al bar a prendere un caffè trovi sicuramente qualcuno che conosci con cui scambiare due chiacchiere.  

C'è qualcosa che vorrebbe dire ai biellesi che sono definiti in genere un po' “orsi”?

Mi viene da sorridere.. la definizione di “orso” dipende sempre dal termine di paragone. Sicuramente c’è sempre stata la fama di essere un po’ chiusi, ma ad esempio paragonati ad alcune realtà del Nord Europa siamo sempre Italiani ed apertissimi. Quello che mi sento di dire dopo tanti anni lontana da Biella è che dovremmo imparare ad apprezzare e valorizzare di più quello che abbiamo e non sempre pensare che sia meglio da altre parti. Biella ha dato al mondo marchi di eccellenza mondiale nel tessile, la Banca Sella, la Menabrea, la Lauretana, abbiamo posti meravigliosi da visitare e mostrare, dobbiamo essere orgogliosi delle nostre origini.

redazione

Leggi tutte le COPERTINE ›
SU